Non l’ho mai detto a nessuno. Ma c’è stato un periodo, tra i sei e sette anni, in cui ho avuto un compagno segreto che vedevo soltanto io e al quale solo io potevo parlare.
Com’era? Non ricordo di preciso. Direi che mi somigliava molto, e in certi momenti sembrava la copia di me stesso. Ma era diverso da me per il carattere.
Io ero timido e un po’ spaventato, perché a scuola non riuscivo a imparare a leggere come gli altri. E anche se mio padre mi diceva di non preoccuparmi, che avrei potuto fare lo stesso un sacco di belle cose anche senza saper leggere come un treno, io ero preoccupato lo stesso.
Mi sentivo diverso dagli altri, non sopportavo certe occhiate della maestra, che mi guardava un po’ perplessa, un po’ impietosita, covavo una rabbia che a volte sfogavo prendendo a calci la ghiaia quando andavo a giocare ai giardini con mia madre.
Ma una sera, mentre facevo fatica ad addormentarmi, mi vidi osservato da un bambino che si grattava la fronte e il naso.
Avrei dovuto spaventarmi. Come aveva fatto ad entrare nella mia camera? Da dove era arrivato?
Niente di tutto questo. Gli chiesi invece: “Chi sei, che vuoi?” come se fosse uno che si trovava lì per caso.
Prima che potesse rispondermi, ammesso che fosse in grado di farlo e che non fosse un fantasma, entrò nella camera mia mamma per rimboccarmi le coperte e darmi la buona notte, come faceva di solito.
Pensavo che avrebbe notato anche lei la presenza del bambino e che mi avrebbe chiesto perché non l’avevo chiamata subito quando me l’ero trovato in camera. Invece il bambino continuava a stare al suo posto e mia madre gli era passata davanti come se non ci fosse.
Quando uscì, il bambino mi rispose: “Non ho un nome. Però puoi darmene uno tu, se vuoi. Per me va bene uno qualsiasi. Che cosa voglio? Parlare con te, se ti va. Se invece non ti va di chiacchierare, vado a trovare qualcun altro”.
Da quella sera non mancò mai all’appuntamento quando andavo nella mia camera e mi infilavo a letto.
“Spegni pure la luce sul comodino da notte” mi diceva “altrimenti tua madre verrà a controllare che cosa stai facendo e ci farà perdere tempo. Al buio puoi vedermi lo stesso”.
A volte si coricava con me nel mio letto. Ma anche quando era stretto al mio fianco, non lo potevo toccare. C’era ma era come se non ci fosse.
“Di cosa sei fatto?” gli chiesi una sera.
“Non ti preoccupare, ci sono e basta. Com’è andata oggi a scuola?”.
“Male, come al solito. Non sono riuscito a leggere le parole che la maestra ha scritto sulla lavagna”.
“E gli altri?”
“Ci sono riusciti quasi tutti”.
“Vuoi che venga a trovarti anche quando sei in classe?”
“Meglio di no. Preferisco che vieni soltanto la sera. Tu non ti arrabbi qualche volta?”
“No, preferisco capire perché si arrabbiano gli altri. Tu, per esempio”.
“Adesso ti spiego meglio. Ascoltami bene”.
“Sono qui per questo”.
Anziché dargli un nome, lo chiamavo semplicemente TU. Mi disse che gli stava bene.
Ci parlammo per molte sere, nel corso di alcuni mesi. Poi conobbi Riccardo e diventammo subito amici.
E una sera TU mi disse: “Penso che da domani non ci vedremo più. Adesso hai Riccardo, col quale parli anche di giorno. Io devo andare a trovare un altro”.
“Uno come me?”
“Uno come eri prima”.
E non si fece più vedere.
La serie del piccolo Antonio di Angelo Petrosino