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L’istinto narrativo

Un treno parte, noi siamo sull’altro, accanto.

Per un attimo ci chiediamo se siamo noi a partire.

Con gli occhi della scienza, è una questione di relatività galileiana, di sistemi di riferimento, cioè di punti di vista. Il che è interessante.

Vediamo: si è mosso qualcosa; potrebbe essere il nostro treno, potrebbe essere l’altro treno, e per capirlo cerchiamo altri riferimenti. Ogni treno ha un suo sistema di riferimento. Fin qui la scienza: ma noi tendiamo a guardare al mondo anche (a volte, soprattutto) con gli occhi della narrazione.

Un sistema di riferimento non è proprio un punto di vista: è qualcosa di più esatto e tecnico, e di meno ampio, ed è quello che suggerisce il metodo scientifico. Un punto di vista è più istintivo, suggerisce un modo di pensare che è organico a ciò che pensiamo, può arrivare a essere una visione del mondo.

Noi abbiamo una visione del mondo narrativa: abbiamo un istinto narrativo che racconta il mondo. Come quando siamo sul treno e l’altro, accanto, parte.

Conoscere questo istinto narrativo è importante: per non lasciare che altri ci freghino solleticando i nostri istinti (quello narrativo, in questo caso); ma anche per capire come mai abbiamo un così grande bisogno di storie, per riconoscere l’uso quotidiano che facciamo delle storie e delle cornici che ci suggeriscono.

 

Come funziona allora questo istinto narrativo?

Torniamo al treno: un treno parte, noi siamo sull’altro, accanto.

La partenza del treno ci insegna almeno tre cose.

 

Anzitutto suggerisce, ci permette di riconoscere un pensiero epidermico, una sensazione a pelle che nemmeno abbiamo pensato, una scelta istintiva: percependo che qualcosa si muoveva, la nostra reazione è stata immaginare che fossimo noi a muoverci. L’istinto narrativo ci suggerisce che le storie ci riguardino, o meglio, che ci interessino di più le storie che ci riguardano, che ascoltando una storia istintivamente cerchiamo la parte che ci riguarda.

Nella storia, siamo noi a muoverci, e ci interessano le storie che forniscono appigli all’immedesimazione.

È banale: ma è bene tenerne conto. Dovrebbe saperlo il narratore quando cerca esattamente come presentare la storia, dovrebbe tenerne conto l’ascoltatore quando ha il sospetto che qualcuno stia cercando di solleticare il suo istinto con una storia (mentre, magari, è lì per sentire altro: un programma di governo, un’offerta di mutuo, una diagnosi).

 

La seconda cosa riguarda la nostra paranoia, la nostra attenzione e la capacità di allarmarci. Seguiamo le storie che ci segnalano un pericolo: al movimento del treno reagiamo pensando, di soprassalto, che siamo noi a muoverci – anche se non è ancora il momento, anche se le persone stanno salendo o se non siamo pronti.

Così le storie che ci interessano riguardano anche la nostra attenzione preoccupata all’esterno, il sentire che malgrado i nostri sforzi qualcosa sfugga al nostro controllo, o capire che siamo passeggeri sospesi, in balia del destino, al tempo stesso interrogandoci su cosa dobbiamo fare.

L’imprevisto ci stuzzica, ci circonda e ci definisce: siamo sotto sotto convinti che siamo non ciò che facciamo ogni giorno, ma ciò che faremmo o abbiamo fatto in circostanze straordinarie. Le storie quotidiane sono il sedile su cui sediamo, ma lo sguardo è volto all’esterno, l’attenzione vigile dei sensi attende che le circostanze ci mettano alla prova.

 

La terza cosa riguarda il nostro bisogno di raccontare a terzi, il lato sociale del racconto: quando ci accorgiamo del movimento del treno, della partenza del nostro o dell’altro treno, probabilmente ci viene da chiedere a qualcuno, anche fuor di vergogna, se ci stiamo muovendo. Una storia ha bisogno di pubblico e di essere raccontata.

Ma cosa diciamo quando raccontiamo?

Probabilmente non ci interessa sapere se ci stiamo o non ci stiamo muovendo. Abbiamo bisogno piuttosto di raccontare l’errore, il momento in cui entrambi i treni nella nostra testa potevano muoversi, la sospensione della percezione.

Quello che raccontiamo è lo straordinario, certo, ma anche il rovesciamento, la rivelazione: la narrazione ha bisogno di un movimento interno, di rivelazioni, di qualcosa che capiamo – questo poi racconteremo, che non capivamo, che poi abbiamo capito. Frasi che difficilmente dirà il protagonista, ma che sono perfette per il narratore e ben descrivono i movimenti dell’animo del lettore.

 

Immedesimazione, straordinario, rivelazione, dunque.

Qualcosa che sembra riguardarci, qualcosa che pare diverso e ci stava sfuggendo, qualcosa che prima non capivamo e poi è chiaro: tutte queste sono componenti del nostro istinto narrativo, del modo di conoscere che affidiamo alle storie e che è un istinto sociale, che chiede condivisione, che ha un’urgenza e una sua importanza tangibile, immediata.

 

Condividendo la domanda “ci stiamo muovendo?” o anche, un attimo dopo, la piccola storia che si porta dietro, che si porta dentro, ci sentiremo parte di una comunità.

Parlando scopriremo non solo che ci stiamo spostando (ora o tra un attimo) con altri, insieme ad altri; persone più o meno conosciute con cui condividiamo il nostro viaggio. E con questi abbiamo per un attimo fatto le stesse ipotesi, che per un momento ci sembrava, che abbiamo sentito e pensato qualcosa in comune. Più che la condivisione del posto in cui stiamo (il treno) e di quello in cui andiamo (la destinazione), ci affascina, affascina noi moderni, il fatto di aver condiviso un pensiero, un’idea, un’ipotesi, di avere avuto una rivelazione. E questo meccanismo potrà ripetersi e essere ogni volta nuovo, e cambierà solo la vergogna e la minore urgenza di condividere la nostra scoperta con delle persone più o meno conosciute.

 

Tutte queste cose, beninteso, le sappiamo e non le sappiamo. Le esperiamo ma non producono solitamente grandi rivelazioni – però ci sono. Stanno lì e rimangono da qualche parte insieme alle altre storie che ci hanno colpito, le depositiamo in qualche luogo della nostra memoria. Dopo un attimo, cioè, non ci pensiamo più. La conoscenza narrativa è una conoscenza di latenza.

La storia, il momento in cui non sapevamo se eravamo noi o gli altri a muoversi, l’emozione suscitata, il racconto… tutto rimane latente. Sentiamo che potrà insegnarci qualcosa, e lo conserviamo avvertendo quella combinazione di straordinaria sospensione, di immedesimazione, di rivelazione. Ha superato i test della sospensione dell’incredulità, del “de te fabula narratur”, il nostro bisogno di colpi di scena.

 

Qual è la morale del mio racconto del treno?

Non c’è, la morale: anche questa storia sta lì, latente, aspettando che le circostanze della vita ci suggeriscano come leggerla e come rileggere i nostri percorsi. Le storie non insegnano, ma rivelano, o ci accompagnano. Ci cambiano nel profondo, ma non sempre subito, lo fanno con i nostri tempi – quelli che ci permettono di intravvedere ciò che potrebbe essere.

 

Il racconto è un inganno della percezione, come sa bene Don Chisciotte; ma un inganno, un’incertezza che è interessante nella sua capacità di rivelazione, nel suo dimostrarsi inganno o verità. Un racconto, per inciso, ha bisogno di ambiguità: perché senza ambiguità non c’è rivelazione.

Forse, invece, non ha bisogno di eroi – di protagonisti sì, di reazioni allo straordinario o di reazioni straordinarie, ma non necessariamente di eroi.

Il “racconto di eroi” è un tipo particolare di racconto, uno dei modi in cui si può sfruttare l’istinto narrativo per orientare le percezioni sociali. Quella è la storia che conferma, che rassicura, che sottolinea. Esistono cioè storie senza ambiguità, sì; ed esistono protagonisti senza ambiguità, eroi (e storie eroiche) che modellano e conformano il nostro comportamento. Confermano e conformano – ma non possono, credo, produrre cambiamento: non sono quelle che riproduciamo spontaneamente, che citiamo a terzi per il gusto di citarle, per lo stupore prodotto in noi.

Se sentiamo che non ci riguardano, quelle storie eroiche e straordinarie, e così ricche di modelli positivi, se sentiamo che non ci interessa quella particolare forma di eroismo e di abnegazione, troviamo quelle storie inutili e ributtanti, terribili.

Siamo anche pieni di storie così, che ci dicono non chi si sta muovendo, ma ci raccontano la grandezza del treno o della stazione, la fatica e la responsabilità del capostazione, la necessità di timbrare il biglietto e di allontanarsi dalla linea gialla nell’attesa del treno.

Sono racconti, alla lettera, edificanti, cioè che vogliono costruire ciò che dobbiamo essere: non c’è latenza, ma propaganda, non c’è la scoperta ma l’insegnamento. Non c’è spazio per il lettore, non c’è complicità nel racconto.

 

Quando ascoltiamo queste storie, quando da esse ci facciamo prendere, siamo stati ingannati dal nostro istinto: perché in fondo non abbiamo imparato nulla. E a volte, peggio, diventiamo complici nell’amplificazione di una storia che non ci rende più umani.

 

Forse è per quello che è “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”; forse è per quello che come un poeta solitario e vagabondo direi “Fabbricare fabbricare fabbricare Preferisco il rumore del mare” (erano lì, Brecht e Campana, latenti: e aspettavano che parlassi di questo per venirmi alla mente); forse è per quello che le storie sono così meravigliosamente inutili, e le cose inutili ci fanno vivere.

 

Forse è per questo che quando percepisco il bisogno di storie, so anche quali sono le storie che preferisco. Al di là della tecnica, e della capacità di scrittura, della bravura nell’evocare un mondo, sono dalla parte delle storie che ci dicono ciò che potremmo essere, ciò che potrebbe succedere, e non ciò che dovremmo essere e ciò che dovrebbe succedere.

E questa è la morale.

 

Magari sbaglio, eh.

Siamo noi che ci stiamo muovendo?

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