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Edizioni Sonda

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Il racconto dei racconti

Ho visto Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, e mi è piaciuto. Mi è piaciuto dal punto di vista estetico, anzitutto, e perché è un film d’autore con azione e carattere. Ma soprattutto mi è piaciuto per come traduce visivamente la fiaba.

 

Diciamo allora di cosa si tratta (chi già lo sa salti pure questo paragrafo): Matteo Garrone, già regista di Gomorra, ha girato ora questo film con una coproduzione internazionale, a partire da tre fiabe de Lo cunto de li cunti, il capolavoro secentesco di Giambattista Basile, il primo grande compendio europeo di fiabe, scritto in napoletano colto e all’origine di alcune narrazioni di Perrault e dei Grimm. Le fiabe sono La cerva fatata, La pulce e La vecchia scorticata, e nel film vengono intrecciate con una certa libertà rispetto alle trame originali, ma con un sostanziale rispetto dell’immaginario di Basile. Il film è da poco uscito nelle sale ed è in concorso al Festival di Cannes.

 

Grazie anche alle parole usate dal regista, il film è stato presentato come un “fantasy d’autore”. Perché Garrone assimila la propria opera al fantasy? Credo che anzitutto al regista prema prendere le distanze da altre trasposizioni cinematografiche fiabesche: per dirlo chiaramente, Il racconto dei racconti non ha niente a che fare con la Cenerentola di Kenneth Branagh, per prendere a esempio l’ultimo film tratto da una fiaba. Dentro Il racconto dei racconti c’è molta più carne e sangue e meno cristallo, più rigore simbolico e meno fiori, più destino e meno lieto fine. Garrone non ha fatto un film per bambini: il Racconto è più crudo e fondamentalmente più onesto di una lettura disneyana.

 

Uno degli obiettivi riusciti del film mi pare sia proprio la riappropriazione dell’immaginario fiabesco, attuata cercando modi diversi di tradurla visivamente: sullo schermo ci sono echi simbolisti e preraffaeliti, ci sono citazioni dal Boccaccio di Pasolini, dal Casanova di Fellini, dall’Armata Brancaleone di Monicelli e (meno) dal Pinocchio di Comencini, dall’Atalante di Vigo e dal Settimo Sigillo di Bergman, così come c’è anche una solida competenza sui fantasy di successo degli ultimi anni (Il signore degli anelli e Il trono di spade su tutti). Il risultato, molto armonico, è originale e visivamente coerente, con una azzeccatissima scelta di location italiane non scontate.

 

Rispetto a Disney (e ai suoi emuli), la fiaba risulta più immediata, non ingentilita, e anche coerente nel suo mondo, perfettamente atemporale: i boschi sono luoghi in cui ci si perde e ci si trasforma (non ci sono uccellini e scoiattoli), le grotte sono buie e remote (senza topolini), il fondo dell’acqua è opaco e salmastro (privo di pesciolini). Tutto, a livello visivo, è presente in modo immediato e contemporaneamente onirico. Per contrasto, vedendolo, ci rendiamo conto di quanti lavaggi abbiano subito le fiabe passando attraverso un trattamento che ormai non è solo disneyano. Lo studioso di fiabe americano Jack Zipes ha a più riprese preso le distanze dal modo in cui l’industria culturale si sia appropriata delle fiabe: nel Racconto leggo la volontà di un artista di tradurre visivamente non la nostra idea di fiaba, ma il testo letterario seicentesco di Basile, restituendoci così intere parti di immaginario, di simbolismo, di significato precedentemente sacrificate in nome del lieto fine e del quieto vivere.

 

Le fiabe non sono mai quiete, e presentano una morale spesso mostruosa: di più, nelle fiabe di Garrone non ci sono in modo chiaro “buoni e cattivi” – il film presenta sullo stesso piano meschinità e orgoglio, desiderio e follia, amore e possesso. Però, anche per questo, il film di Garrone non è un fantasy: le vicende non si chiudono in maniera esemplare, i cattivi non vengono tutti sconfitti, e contano più i simboli degli accadimenti, più il “cammina cammina” che il “e vissero felici e contenti”. Non è fantasy rispetto alla canonizzazione attuale del fantasy: non ci sono le folle cui ci ha abituato Peter Jackson, c’è un uso sapiente (e non eccessivo) degli effetti speciali, i costumi e gli attrezzi non appartengono a un generico Medioevo ma sono coerenti con il Seicento del racconto, e il punto di vista è più originale rispetto a quello cui ci hanno abituato i fantasy recenti.

 

La sensazione è che Il racconto dei racconti appartenga a un nuovo filone del fantastico, che attinge alle fiabe rivedendole con uno sguardo sempre in qualche modo eclettico e originale, e che è più antico e più moderno del fantasy. A questo genere fiabesco ascriverei alcune opere di autori per ragazzi (tra cui l’italiana Paola Zannoner con Specchio specchio), fumetti (il capolavoro è per ora Fables di Bill Willingham), spettacoli teatrali (penso in particolare alle riletture di Teresa Ludovico), e anche almeno una serie televisiva.

 

Le fiabe sono tornate urgenti (non di moda, non di attualità: urgenti) anche per reazione a un’industria culturale che tende a prodotti piacevoli e indifferenziati, cui mancano emozioni e sensazioni ataviche: dopo circa un secolo in cui erano tornato prodotto per bambini per eccellenza, le fiabe oggi rivendicano una loro voce autonoma, e ci ricordano che siamo sempre accompagnati da simboli potenti, da streghe e orchi, da magia e paura. In particolare, le fiabe (e in particolare le tre de Il racconto dei racconti) mettono in scena dei giovani, e li trasformano: e al racconto questo, anche, chiediamo.

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