Mi sono ispirato più a Piero Gobetti che a Giulio Einaudi.
Perché il primo attribuiva lo stesso valore e dedicava la stessa dedizione a incontrare un nuovo autore e a preparare i pacchi per spedire i libri. Mi sono sempre identificato con chi ha progettato la “rivoluzione liberale” anziché la “riforma sociale” (i titoli delle riviste con cui i due editori hanno cominciato).
Se esiste una mentalità da piccolo editore diversa da quella del grande editore credo che ben si possa riferire a queste due figure di editori torinesi.
Giulio Einaudi non è mai stato un piccolo editore perché ha sempre spregiudicatamente pensato in grande, e perché ha costituito da subito la sua casa editrice con tutte le caratteristiche, compreso il mito, che la rendessero tale.
Invece Piero Gobetti non è diventato un grande editore non perché gli è stato violentemente impedito di continuare il suo lavoro, ma perché esiste un modo sobrio e rigoroso di affrontare il rischio e il cambiamento, e un modo arrogante e spregiudicato. E questo risulta evidente da subito, per molti editori della mia generazione.